DIETA DIMAGRANTE: qual’è la migliore ?

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PERCHE’ TUTTE LE DIETE FUNZIONANO?

Esistono innumerevoli approcci,diete, schede di allenamento, spesso molto diversi fra loro , che garantiscono,tutti, risultati efficaci. Perché questo accade? Dieta Lemme, Dukan, dieta zona, metabolica, tutte efficaci per due semplici motivi:

1. Deficit Calorico

2. Costanza nel tempo

Le diete funzionano a prescindere dalla tipologia, sia che essa sia dissociata, vegana o paleo; ciò che le accomuna è un deficit energetico mantenuto nel tempo. E’ questo particolare fattore che determina la qualità di una dieta, e che ci permette di agire con cognizione di causa, consapevoli di ciò che si sta facendo, senza essere influenzati dal metodo ‘X’, ma dal principio di tale metodo.

Concetti tanto banali quanto semplici, che spesso sono , però, totalmente ignorati da coloro che seguono qualsiasi tipo di regime alimentare e che li portano ad associare determinati risultati al fatto come la tipologia di un alimento, all’orario in cui viene consumato, alle intolleranze o all’eliminazione di cibi ritenuti ‘dannosi’, o ancora agli ormoni, alla tiroide o al DNA. Tutti fattori che vengono presi in causa e sfruttati spesso come capri espiatori e che finiscono per assumere un importante peso psicologico come cause di mancati successi.

Molte diete, anche se spesso seguono poca logica, in realtà portano il soggetto a una sorta di dimagrimento, proprio perché quando si eliminano cibi ,o classi di alimenti poco sani, vengono imposte di conseguenza, e spesso inconsciamente,delle nuove regole, dei regimi sicuramente più genuini, che portano inevitabilmente ad un’assunzione minori di Kcal, quindi alla perdita di peso. 

Quindi, di conseguenza, l’individuo si sente effettivamente meglio, sia fisicamente, ma ancor più psicologicamente.

Si parla spesso, a tal proposito, del cosiddetto ‘Effetto Placebo’; per cui, se si pensa che quel dato alimento faccia male, dal momento in cui viene escluso dal piano alimentare, i sintomi migliorano realmente, il fatto di crederci da parte dell’individuo, lo porta effettivamente a una sensazione di benessere acquisito.

Il concetto che ci tengo risulti chiaro è che tutte le diete, come tali, sono volte al dimagrimento, e rimangono efficaci con un deficit calorico protratto nel tempo, e ciò che differenzia una dieta da un’altra è il metodo con cui questo principio viene applicato.

 Si parla quindi di una buona strategia per il controllo della fame, di una sostenibilità attraverso percorsi flessibili, un buon bilanciamento dei nutrienti, e un saldo appoggio psicologico.

Tutti questi principi sono solo un piccolo esempio di come una dieta dovrebbe essere impostata e purtroppo non vengono quasi mai trattati, per cui chi non ha alle spalle una buona cultura alimentare il più delle volte finisce per convincersi del fatto che il glutine faccia male, così come assumere carboidrati la sera ecc., quando in realtà a fare la differenza è quasi sempre l’eccesso.

Ancora oggi, nonostante gli innumerevoli mezzi di informazione , a disposizione di chiunque, ovunque e a qualsiasi ora del giorno e della notte, vengono purtroppo, divulgate un gran numero di sciocchezze. Ecco allora che risulta complicato accettare la realtà dei fatti, e si finisce così a voler essere salvati dalla nuova dieta miracolosa, dal nuovo super integratore o crema dimagrante anticellulite.

pertanto bisogna iniziare ad avere un pensiero critico verso le innumerevoli informazioni che riceviamo tutti i giorni , iniziando a capire le logiche di determinate affermazioni e soprattutto capire i canali autorevoli da cui ricercare le informazioni.

PIZZA HOME MADE

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La pizza ai tempi del Coronavirus

L’essere umano, nella sua vita ha bisogno di due cose: Amore e Mangiare.

In questi momenti, dove il tempo sembra non passare mai, ho trovato una parola che racchiude tutte e due queste essenze… PIZZA!

Dopo 10 anni passati davanti a libri contabili, ho deciso di smettere di ritagliare del tempo alla mia passione, ed è cosi che da ragioniere ho deciso di diventare un pizzaiolo, non senza le sue difficoltà, non senza momenti di sconforto, ma rifarei questa scelta altre 1.000 volte.

 La sola idea di poter creare qualcosa di così speciale con acqua e farina mi rende appagato.

La pizza non ha segreti: acqua, farina, lievito e sale

Vi lascio una ricetta semplice.

Partiamo con il capire quanta pizza vogliamo fare e parliamo in padelloni del forno di casa. 

A meno che non abbiate forni particolari, le vostre teglie da forno misurano 30×40. Quanto impasto metto in ogni teglia? Semplice! Prendiamo la nostra teglia e facciamo lato x lato /2 , ad esempio (30×40)/2=600g.

600 g sarà la quantità minima fino a un massimo della metà in più (quindi massimo 900 g) per padellone.

Le farine, altro tasto dolente nella pizza casalinga. C’è chi dice 0, chi 00, chi integrale… Quello che importa sarebbero dettagli tecnici che, a meno che non abbiate una pizzeria, vi consiglio di trascurare. 

I parametri da valutare sarebbero: W, P/L e quantità di proteine, ovviamente non terrò una lezione di chimica a riguardo e quando vi trovate davanti a tutte le farine del supermercato la scelta migliore e sempre quella che viene semplicemente chiamata “farina per pizza” o in alternativa (anche se ha caratteristiche molto diverse) la “manitoba”.

Cominciamo e vi dico subito che la ricetta che vi do ha tempi variabili in base a condizioni atmosferiche, tipo di farina, tipo di acqua e anche la qualità del lievito, quindi non prendete tutto come se fosse la bibbia e metteteci del vostro. L’estro in cucina, paga sempre.

Ricetta per due teglie 30×40

1.000 g farina

650 g acqua

7 g lievito di birra fresco (oppure 3,5 g di quello in polvere)

26 g sale

Ore 15 circa del giorno prima della pizzata

In una ciotola abbondante, versate tutta la farina e 550 g di acqua, iniziate a impastare il tutto con un cucchiaio di legno e create un impasto grezzo, l’importante è che tutta la farina sia bagnata. 

Dopo circa 30 min, sbriciolate il lievito sull’impasto e aggiungete 50 g di acqua e continuate a impastare con il cucchiaio di legno e dopo due minuti inserite il sale e gli ultimi 50 g di acqua fino a che l’acqua non sarà completamente assorbita. A questo punto lasciate riposare l’impasto 15 min  e dopo questa attesa riprendete a impastare (se non volete sporcarvi proseguite con il cucchiaio, se no rimboccatevi le maniche e usate le mani) cercando di dare una forma liscia e sferica al vostro impasto, ungete una ciotola che possa contenere 2 volte e mezzo il volume del vostro impasto e chiudetelo ermeticamente con della pellicola trasparente, lasciate riposare l’impasto un’ora a temperatura ambiente e poi via in frigo.

Il giorno dopo, alle 14, tirate fuori l’impasto e ancora freddo tagliatelo in due (se avete fatto la ricetta per 2 padelloni), ricreate leggermente la forma sferica e adagiatela nella teglia da forno oliata. Adesso comincia la parte che richiede più pazienza. Usando interamente il palmo della mano iniziate ad appiattire la sfera. 

Ovviamente non arriverete ai bordi con la prima stesura ed è quindi necessario far riposare 10 min il vostro impasto ogni volta che inizia a diventare più resistente alla vostra pressione e diciamo che in 3,forse 4 volte dovreste riuscire a uniformare la pasta fino agli angoli.

Prima di mettere a riposare il nostro impasto dobbiamo già aver chiaro le farciture delle nostre pizze: 

  • -Se la pizza sarà rossa o base margherita, mettiamo un velo di pomodoro a temperatura ambiente
  • -Se la pizza sarà bianca mettiamo qualche listarella di mozzarella in qua e in la

La vera farcitura avverrà solo dopo la precottura, quindi state scarsi con questi condimenti.

Ormai, saranno le 15 ed è il momento di mettere a riposare il nostro impasto per l’ultima volta e il posto migliore è dentro il forno spento e chiuso.

Alle 19 tirate fuori le teglie dal forno e se tutto è andato per il verso giusto dovreste avere un impasto che è arrivato in cima ai bordi delle teglie (sempre parlando di teglie da casa), accendete il forno ventilato e al massimo (circa 250°). Quando sarà quasi in temperatura iniziamo la precottura, 6/7 min sulla parte più bassa del forno (fondamentale precuocere una pizza alla volta).

Una volta precotta, sarà appena dorata sotto e apparentemente cruda sopra ed è a questo punto che dovete sfornarla, farcirla come la preferite e finirla di cuocere per altri 6/7 min nella parte più alta del forno.

Una volta finito, sfornate, aspettate 5 min, tagliate e mangiate. 

Buon Appetito!

La pizza non è un primo, la pizza non è un secondo, la pizza non è un alimento… La pizza è l’essenza della felicità.

Ciro Jonathan Carbone

OBESITÀ: SPIEGAZIONE SCIENTIFICA

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                              La propensione all’obesità

L’attuale epidemia di obesità è una condizione insorta in così pochi anni che porta da tempo gli studiosi ad interrogarsi sulle sue origini. Una mutazione genetica sarebbe troppo lenta ad agire perché la prevalenza dell’obesità si manifesti in modo così preponderante; al contempo, il solo cambiamento dell’ambiente intorno a noi non può spiegare completamente la tendenza all’accumulo di grasso, o l’intera popolazione sarebbe obesa. 

Nel tempo quindi sono state formulate delle teorie per arrivare al cuore della questione, e potenzialmente sviluppare delle terapie efficaci. 

Ormai si ritiene diffusamente che ci sia un’interazione tra ambiente e genetica, e la teoria che ne parla viene chiamata dual-intervention point. In questo modello teorico abbiamo un range di adiposità, chiamato settling point (o zone), in cui il singolo organismo si muove in libertà. L’equilibrio dell’individuo all’interno di questo range è determinato soprattutto dall’ambiente intorno a sè: stimoli visivi, eventi sociali, preferenze di gusto. Il range è delimitato da un upper intervention point UIP (traducibile con “limite superiore d’intervento”) e un lower intervention point LIP (“limite inferiore d’intervento). Questi due limiti sono, invece, determinati dalla biologia e genetica dell’individuo. Oltre essi entrano in gioco fattori ormonali e neuroendocrini che spingono fortemente per il ritorno dell’individuo ad uno stato in cui abbia una quantità di grasso che rientra nella sua settling zone. Questa si configura quindi come l’area di omeostasi di adiposità corporea, ovvero la zona di equilibrio dinamico verso la quale tendono i processi energetici.

La settling zone viene anche chiamata “zona di indifferenza biologica”, a sottolineare la dicotomia della regolazione dell’adiposità: quando ci si trova questa zona c’è una regolazione su base ambientale, data da stimoli esogeni, mentre quando ci si trova in una delle due zone oltre l’UIP e il LIP si ha una regolazione su base biologica, data da stimoli e meccanismi endogeni. 

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FIGURA 1 SETTLING ZONE

In particolare, quando si supera l’UIP e si sale oltre la massima adiposità tollerata dal nostro organismo, il principale fattore che entra in gioco è la leptina. Questo ormone, secreto soprattutto dal tessuto adiposo, serve a segnalare sovrabbondanza di energia al nostro sistema nervoso centrale (SNC). Il raggiungimento dell’UIP si ottiene quindi con un surplus relativo di energia, dato da una diminuzione del dispendio calorico e/o da un incremento delle calorie ingerite. Ciò che farà la leptina a livello centrale è dare una forte spinta in senso contrario: esso è infatti sia un ormone anoressigeno, cioè che riduce il senso di fame, sia un ormone che agisce sul dispendio calorico.
Infatti a livello del SNC, nel nucleo arcuato, la leptina ha due azioni: riduce la produzione degli ormoni oressigeni centrali, NPY e AgRP, e al contempo aumenta il rilascio di POMC e CART, che danno sensazione di sazietà. Inoltre la leptina, tramite azione sull’ipotalamo, aumenta il dispendio calorico: essa aumenta l’attività tiroidea, aumenta la termogenesi del tessuto adiposo marrone (BAT) -infatti un altro segnale per l’aumento della leptina è l’ipotermia-, aumenta l’attività cardiaca (inotropo positivo) e la pressione sanguigna (vasocostrittore).

Quindi la leptina rende il nostro sistema energetico più inefficiente, ovvero fa disperdere più energia come calore. Nonostante il significato generalmente positivo attribuito alla parola “efficienza”, paradossalmente abbiamo un metabolismo più inefficiente nelle persone magre e più efficiente negli obesi. Questo significa che, quando ogni caloria ingerita viene risparmiata sotto forma di grasso, avremo un sistema energetico molto efficiente, ma al contempo saremo proni all’obesità, che a livello di salute ed economico di efficiente ha ben poco.

Alla luce di queste azioni della leptina si era presupposta una terapia dell’obesità tramite somministrazione di tale ormone; purtroppo si è scoperto che gli individui obesi sono resistenti ad esso, e difatti ne hanno alti livelli circolanti. Questi alti livelli, d’altronde, sono parte del rischio cardiovascolare aumentato di questi individui, visto l’effetto che hanno su tale sistema.          

Quindi, come vengono impostati i parametri di LIP e UIP? Negli anni sono state fatte più ipotesi.

La meno recente è quella detta “thrifty gene hypothesis” (ipotesi del gene risparmiatore). Essa si basa sulla necessità ancestrale dell’uomo di sopravvivere a periodi di carestia, quindi sulla necessità di avere un sistema energetico molto efficiente. Coloro i quali erano più efficienti a risparmiare calorie, infatti, erano gli individui più propensi a sopravvivere ad una mancanza di cibo, e quindi più propensi a riprodursi e a trasmettere i loro geni e il loro metabolismo. In questo senso avremmo un continuo spostarsi verso l’alto dell’UIP, ed una promozione dei geni dell’adiposità, con una capacità sempre maggiore per gli individui delle successive generazioni di accumulare grasso senza che i meccanismi biologici pongano un freno a questa tendenza.

Ma, come anticipato nell’introduzione, se questa teoria fosse vera nell’era odierna saremmo tutti obesi, in quanto nel mondo occidentale siamo più o meno tutti esposti agli stessi stimoli ambientali e la maggioranza ha la possibilità di accedere in qualsiasi momento al cibo. 

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FIGURA 2 IPOTESI THRIFTY

Una teoria che è stata formulata successivamente, quindi, è la “drifty gene hypothesis” (ipotesi del gene alla deriva). In questa ipotesi si suppongono delle mutazioni randomiche dell’UIP, non necessariamente verso l’alto. La spinta antropologica a questa variabilità genetica sarebbe stata data dal “predation release” (rimozione dei predatori): l’essere umano, grazie alla formazione di comunità e alla progressione tecnologica, ha avuto la possibilità di non subire più la minaccia da predatori e, anzi, diventare lui stesso predatore. Fino a questo momento l’UIP era basso, in modo da essere abbastanza magri per poter fuggire da un predatore, mentre il LIP era abbastanza alto da consentire il livello minimo di grasso corporeo per poter sopravvivere. Dall’era del predation release in poi, l’UIP ha potuto modificarsi liberamente ed essere trasmesso ai posteri, senza che questo significasse essere a rischio. 

Da questa ipotesi deriva un corollario: a seconda di dove si trovi l’UIP dell’individuo abbiamo hard gainers, anche detti “spendthrift” (dispendiosi) e easy gainers o “thrifty” (risparmiatori), ovvero persone che difficilmente accumuleranno grasso (perché l’UIP è basso) oppure lo accumuleranno con facilità (avendo l’UIP alto). 

Questi ultimi, i thrifty, sono coloro che hanno un’area di indifferenza biologica più ampia, e di conseguenza saranno capaci di avere grandi variazioni di peso corporeo durante l’arco della loro vita. In queste persone, quindi, il controllo biologico è più difficilmente attivo, e il loro livello di adiposità si muoverà molto di più nel range di influenza dell’ambiente che li circonda. Questo range, inevitabilmente, è molto ampio. Tali individui hanno un maggiore dispendio calorico ma anche una maggiore riduzione di tale dispendio in condizioni di digiuno.

Al contrario, gli spendthrift sono meno efficienti metabolicamente: disperdono più energia come calore, invece di accumularlo come grasso. Questa è una condizione che, in realtà, sarebbe evolutivamente svantaggiosa, considerando l’enorme dispendio calorico che un animale dovrebbe impiegare per trovare cibo. 

            A livello sperimentale si può scoprire se un individuo sia thrifty o spendthrift tramite un test del digiuno. Tali test causano cambiamento del dispendio energetico in acuto, che si può oggettivamente misurare: dei marker che sono stati studiati a riguardo sono l’epinefrina urinaria e l’FGF24 ematico. Negli individui thrifty abbiamo un minore aumento dell’epinefrina nel sangue durante la fase di digiuno, e solo un modesto incremento di FGF24 nel sangue, rispetto agli spendthrift. Questo riflette un minor dispendio calorico dei thrifty a pari condizioni di deprivazione calorica.

Ora possiamo provare a rispondere alla domanda: perché alcuni individui sono obesi ed altri no?

I principali motivi che sono stati individuati, e che interagiscono tra loro, sono:

Genetico: dove il singolo organismo individua il proprio UIP;

Biologico: la regolazione della fame è un meccanismo impreciso;

Ambientale: dato dall’ambiente obesogeno.

Parlando del secondo fattore di propensione all’obesità, vari studi dimostrano come il senso di fame non riesca a compensare perfettamente un surplus o un deficit calorico acuto. 

Questo da una parte è dimostrato dall’andamento ondulatorio del peso corporeo durante le festività: il peso acquisito non viene completamente perso nei mesi successivi, e negli anni a venire la tendenza è quella di un accumulo di grasso sempre maggiore durante il corso della propria vita. L’errore energetico è, in media, del 24%, che in un anno significherebbe accumulare 23 kg circa. L’accumulo annuale medio negli individui dei paesi occidentali, in realtà, è di 0,7 kg annui, probabilmente per aumento dell’attività spontanea (NEAT) e per l’aumento del metabolismo basale dato dall’aumento di massa corporea.

D’altra parte, è stato dimostrato che, in condizioni di lieve deficit calorico, la fame nelle ore e giorni successivi non porta a recuperare precisamente le calorie non introdotte. Per esempio, saltare la colazione ha portato il campione di soggetti studiati a mangiare un po’ di più nel pasto successivo, ma il recupero di kcal è stato in media di +150 kcal a pranzo vs -450 kcal non ingerite a colazione: a fine giornata, perciò, il deficit creato era stato di 300 kcal in media.

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FIGURA 3 NO BREAKFAST

In ultimo parliamo del fattore ambientale.

Negli ultimi 40 anni è andato formandosi un ambiente via via più obesogeno:

-Le crescenti comodità hanno portato ad una riduzione dell’attività giornaliera, avendo ora la possibilità di non doversi alzare dal divano neanche per pulire casa o procurarci del cibo. 

-C’è ormai possibilità per la maggioranza della popolazione occidentale di avere cibo sempre disponibile ad un costo vantaggioso. 

-Il cibo viene reso sempre più appetitoso, favorendo la sovralimentazione su base edonica senza rispettare la sazietà metabolica. Quando parliamo di spinta edonica stiamo tirando in gioco la dopamina, ormone che media la soddisfazione e il piacere di ogni tipo: a seguito di ingestione di cibo appetitoso, di successi lavorativi, di attività sessuale.

La sazietà è un segnale omeostatico: per il corpo è ugualmente dispendioso ingrassare o dimagrire, ovvero andare oltre l’UIP o il LIP. 

Eppure, è molto più facile bypassare l’UIP, grazie alla forte componente di piacere legata al mangiare cibo appetibile. In aggiunta, è stato dimostrato che la sovralimentazione desensibilizza il SNC dall’effetto della dopamina. Questo significa che, esattamente come per ogni tipo di dipendenza da sostanze, nel tempo servirà sempre una maggiore quantità di cibo per ottenere lo stesso effetto di ricompensa sul SNC.

D’altra parte, restare al di sotto del LIP comporta una condizione di fame che è molto difficile da gestire nell’attuale ambiente, bombardati da immagini di cibo e disponibilità dello stesso. La capacità di resistere alla fame, anzi, è tipica di un disturbo psichiatrico, l’anoressia nervosa; questo è spiegato dagli studi che hanno scoperto nel SNC dei pazienti affetti modifiche nei pathway che mediano la ricompensa. In questa patologia, infatti, la profonda alterazione dei funzionamenti neuronali, che si basa sulla paura e sull’ansia di prendere peso, arriva a riconoscere come ricompensa l’essere affamati, e a negare il bisogno e la voglia di cibo; questa è una modificazione della fisiologia che risulta fortemente anticonservativa per la specie.

-Non da ultimo, la formazione di abitudini, che una volta create sono fortemente ingranate nel nostro SNC. Le abitudini di ogni tipo rientrano nel concetto di efficienza dell’organismo: la prima volta che si esegue un gesto si vedrà all’elettroencefalogramma (EEG) un’elevata attività e alla PET-TC un elevato consumo energetico di varie aree cerebrali; quando questo gesto viene reiterato, e soprattutto porta ad un premio (reward) quando la routine viene eseguita, l’esecuzione di quelle azioni finirà nell’ambito dell’inconscio, spostandosi nei nuclei della base. All’EEG vedremo una riduzione dell’attività cerebrale quando quelle stesse azioni verranno compiute. Come detto prima, la componente edonica è indubbiamente elevata nei cibi odierni: questo porta ad un rafforzamento di tali percorsi neuronali di formazione dell’abitudine. Perciò, senza un intervento conscio, le abitudini in campo alimentare spesso portano a perpetuare routine malsane, perché insegnate da piccoli o apprese per imitazione dalla tv o dai social: mangiare davanti alla tv, accompagnare i pasti con l’alcool, mangiare un dolce a fine pasto. Di per sé non sono comportamenti inadeguati, ma possono essere gesti compiuti senza prestarvi attenzione, che portano a mangiare più di quanto consciamente si ritenga di fare. 

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FIGURA 4 HABIT

            In aggiunta a genetica, biologia e periodo storico, crescere in un ambiente con un atteggiamento non sano nei confronti del cibo può portare ad un attaccamento patologico al cibo stesso. Si può interpretare il cibo come conforto, come premio, come rifugio, come sostituzione di affetti, a seconda del tipo di educazione ed esempio ricevuto in età infantile. Questi meccanismi andrebbero riconosciuti dal singolo individuo prima di provare a perdere peso, perché lo ostacoleranno sempre nello sviluppare un rapporto sano con ciò che dovrebbe essere nutrimento e piacere, ma che viene invece interpretato principalmente come soddisfazione emotiva.

In conclusione, l’ambiente obesogeno in cui ci troviamo porta ad abitudini che oltrepassano il controllo biologico: l’ambiente endogeno fallisce sotto la forza dell’ambiente esogeno. Questo è particolarmente vero nei soggetti thrifty, individui in cui i geni che regolano l’upper intervention point sono migrati più in alto, consentendo al corpo di rimanere senza controllo biologico per maggiori quantità corporee di grasso. 

Per tali individui il controllo cognitivo sul proprio dispendio energetico e sul proprio introito calorico è ancora più importante; la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), in questi casi, risulta fondamentale. Inoltre, alla luce della maggior propensità all’obesità, queste persone potrebbero essere candidate più precocemente (cioè a livelli di BMI minori) alla terapia farmacologica contro l’obesità. 

Dott.ssa Erica Rossi, MD

Medico in formazione specialistica in Endocrinologia e Malattie del Metabolismo,
Policlinico di Bari

Bibliografia

•Set points, settling points and some alternative models: theoretical options to understand how genes and environments combine to regulate body adiposity. J.R. Speakman, D.A.Levitsky. Nov 2011

•Role of leptin in energy expenditure: the hypothalamic perspective. R. Pandit, S. Beerens and R.A.H. Adans. Jun 2017

•Is there evidence for a set point that regulates human body weight? M.J. Muller, A. Bosy-Westphal, S.B. Heymsfield. Aug 2010

•The non-regulation of food intake in humans: Hope for reversing the epidemic of obesity. D.A. Levitsky. Dec 2005

Altered Brain Reward Circuits in Eating Disorders: Chicken or Egg? G.K.W. Frank. Oct 2014

•The power of habit. C. Duhigg. RH books, 2013.

VITAMINA D – OBESITÀ E CHIRURGIA BARIATRICA

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L’obesità è un problema di salute di importante rilevanza a livello mondiale: nel 2016 il 39% della popolazione adulta era in sovrappeso (BMI> o uguale a 25) e il 13% era obeso (BMI> o uguale a 30). Si è scientificamente stabilito che la regolazione della massa corporea prevede una forte componente genetica  (40-80% di ereditarietà) ed è riconosciuta come uno dei principali fattori di rischio per numerose malattie croniche in seguito citate.

Molto spesso un cambiamento radicale della dieta e/o un aumento dell’attività fisica hanno dei risultati nulli o comunque non soddisfacenti su pazienti affetti da obesità grave.

In tutti questi casi la chirurgia bariatrica è stata proposta come terapia alternativa alle sopracitate strategie producendo degli ottimi risultati  in termini sia di perdita di peso con conseguente ovvia diminuzione dell’indice di massa corporea (BMI), che di miglioramento dei numerosi  quadri patologici associati all’obesità stessa come il diabete di tipo II (questo spesso avviene ancor prima che inizi la perdita di peso), l’insulino resistenza,  le malattie cardiovascolari, il cancro, la depressione e una riduzione del colesterolo totale e del colesterolo LDL (il colesterolo “cattivo”) con un associato aumento del colesterolo HDL (il colesterolo “buono”)

L’aumento di peso associato all’obesità è associato anche a cambiamenti del profilo epigenetico dell’individuo. Questo perché i disturbi metabolici correlati all’obesità sono prodotti a seguito di un’interazione tra fattori ambientali, stile di vita e fattori genetici e l’epigenetica media l’effetto ambientale sulla funzione cellulare dell’organismo.

Ma cosa si intende con epigenetica?…Questo termine indica appunto come ambiente e stile di vita vanno a influenzare il DNA ricevuto alla nascita. La sequenza del DNA, il materiale genetico che si trova in ogni nucleo di ogni cellula del nostro corpo, non viene naturalmente alterata (in questo caso parleremmo di manipolazione o modificazione genetica) ma l’espressione dei vari geni che compongono il DNA stesso e che sono deputati alla formazione delle proteine che regolano ogni aspetto del funzionamento del nostro corpo, può essere modulata da fattori “esterni” come la dieta, il movimento, l’essere amati o malvoluti, vivere in un ambiente inquinato, avere una malattia cronica ecc.

Tra i geni che possono subire l’influenza epigenetica  dei fattori di cui si è appena scritto vi sono anche i geni che regolano l’obesità, primo fra tutti il gene FTO, riconosciuto come il gene che ha la maggior influenza sull’indice di massa corporea di tutti i geni conosciuti. . Inizialmente si pensava esistesse una relazione tra FTO e i circuiti cerebrali coinvolti nel controllo dell’appetito e nella propensione a  svolgere attività fisica. Si è invece in seguito accertato che questo gene agisce sulle cellule progenitrici degli adipociti in modo indipendente dal cervello. Le mutazioni a carico del gene FTO influenzano infatti il livello di espressione del gene IRX3, riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale come il “controllore” della % di grasso corporeo. Questo gene agisce come “interruttore generale della termogenesi, ovvero di quel processo che permette agli adipociti di bruciare le loro riserve di grasso per produrre calore, disperdendo così l’energia del grasso anziché immagazzinarla.

LA VITAMINA D

La vitamina D è liposolubile, viene accumulata nel fegato, e la si trova in due forme: vitamina D2 (ergocalciferolo) sintetizzata dalle piante e vitamina D3 (colecalciferolo) sintetizzata per il 90% dalla nostra pelle quando esposta ai raggi ultravioletti B della luce del sole.

I cibi che più la contengono sono il pesce “grasso” (sardine, aringhe, tonno, trote, salmone e sgombro), crostacei, molluschi, uova, le verdure a foglia verde e l’olio di fegato di merluzzo mentre latte e latticini, a meno che non siano “fortificati” non ne contengono grandi quantità. Il suo dosaggio nel corpo può essere testata solo attraverso uno specifico esame del sangue ma dei segnali che potrebbero essere indicatori di una carenza sono la pelle scura, uno stato depressivo, età superiore ai 50 anni, sovrappeso, obesità, dolori alle ossa, testa sudata, morbo di Crohn, celiachia o malattie infiammatorie dell’intestino.

Il ruolo di questa vitamina è molto importante perché riduce l’incidenza di diversi tipi di neoplasie (tumore al seno, colon, prostata), rafforza il sistema immunitario riducendo l’incidenza di infezioni come il raffreddore e l’influenza, aiuta a prevenire le malattie autoimmuni, riduce il rischio di ipertensione, cardiopatia arteriosclerotica, infarto, ictus, favorisce la riparazione del DNA e riduce l’invecchiamento agendo come antiossidante.

Si parla di carenza di vitamina D per concentrazioni ematiche di 25-idrossicolecalciferolo (25(OH)D) inferiori a 20 ng./ml. e di insufficienza per valori compresi  tra 21 e 29.

Se è bassa la concentrazione ematica di vitamina D si ha di conseguenza una inibizione dell’assorbimento del calcio e del fosforo a livello intestinale mentre aumentano i livelli del paratormone (PTH) che favorisce il riassorbimento del calcio della matrice ossea promuovendo l’attività degli osteoclasti. Per mantenere quindi la corretta concentrazione ematica del calcio (calcemia) si riduce la densità delle ossa (BMD) con possibile insorgenza di osteopenia e/o osteoporosi.

La carenza di vitamina D viene quindi  il più delle volte associata alla salute delle ossa ma si tratta in realtà anche del deficit più spesso riscontrato nei grandi obesi candidati alla chirurgia bariatrica in quanto, essendo una vitamina liposolubile, le persone con abbondante massa grassa tendono a sequestrarla nel loro tessuto adiposo rendendola indisponibile per le sue molteplici funzioni, hanno un’alterata capacità di sintesi della stessa, un ridotto assorbimento intestinale e tendono a tenere gran parte del loro corpo coperto da indumenti esponendosi poco al sole.

Studi scientifici hanno quindi dimostrato che un trattamento integrativo di vitamina D permette di ottenere un abbassamento dell’indice di massa corporea (BMI) e un miglioramento degli indici di grasso corporeo e di colesterolo dopo circa 12 mesi di trattamento con un conseguente miglioramento del quadro clinico delle patologie più spesso associate all’obesità (ipertensione, diabete, insulino resistenza, steatosi epatica, sindrome metabolica).

Riportare la vitamina D a livelli ottimali promuove quindi la perdita di peso, potenzia gli effetti di una dieta ipocalorica e migliora il profilo metabolico.

Sembra poi che l’ipovitaminosi D si associ a bassi livelli di leptina, ormone che induce sazietà prodotto dalle cellule adipose quando sono sature di grassi. La deplezione di leptina associata a carenza di vitamina D può quindi contribuire ad aumentare la fame e, viceversa, con la supplementazione di vitamina D si è visto che si alzano anche i livelli di leptina con conseguente riduzione del senso della fame.

Dopo un intervento di chirurgia bariatrica (sleeve gastrectomy o bendaggio gastrico)  e, in particolare, dopo una diversione bilio pancreatica che induce chirurgicamente una situazione di malassorbimento, è quindi importante procedere con il dosaggio della vitamina D per prevenire eventuali situazioni di carenza della stessa  tramite l’assunzione di specifici integratori multivitaminici per 6-12 mesi che prevengano il riassorbimento osseo e una condizione di ipovitaminosi generalizzata.

CRACKER AI SEMI MISTI

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RICETTA

INGREDIENTI:

  • 140 gr di farina di riso
  • 150 gr di semi misti (lino, girasole, sesamo, zucca, etc.)
  • 150 gr di acqua
  • 30 gr di olio evo
  • ½ cucchiaino di sale fino

PROCEDIMENTO:

Mescola insieme i semi  oleosi (1) e tritali in maniera grossolana.

Uniscili alla farina (2). Aggiungi poi il sale, l’olio evo e l’acqua continuando a mescolare (3).

Stendi  l’impasto su una teglia (4) foderata con carta da forno.  Assottiglialo per circa 5 mm. Per livellare la superficie puoi aiutarti con un mattarello e un foglio di carta. In alternativa, sistema l’impasto direttamente in uno stampo monoporzione in silicone (5).

Cuoci in forno ventilato a 180°C per  15 minuti, se necessario fai dorare qualche minuto sotto al grill.

Una volta raffreddati taglia i cracker nel formato che preferisci.

Descrizione: 1

instagram: casa.bar.bieri – www.casabarbieri.com

SARCOPENIA : UN AIUTO DAI PESI

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CONTRASTARE LA SARCOPENIA. L’ALLENAMENTO DELLA FORZA NELL’OVER 50.

Dopo anni di lavoro nel mondo del Fitness come tecnico, sostengo ci sia una visione alterata di quello che è l’allenamento della forza nell’immaginario collettivo. Quando propongo un programma per migliorare la forza non è raro che questo provochi un sentimento di paura nell’utente che ho di fronte, soprattutto se costui non è più un ragazzino. L’utente medio tende ad accostare erroneamente questa tipologia di allenamento ad un qualcosa di troppo estremo, che non fa per lui, per via degli acciacchi o dell’età.

E’ compito di un bravo tecnico informare in cosa consista un percorso di questo tipo, cosa comporti, sia in termini di benefici sia in termini di rischi. Immaginate la “signora Pina”, di anni 58, osteoporotica, con una protesi all’anca e due ernie discali che entra in un centro Fitness, dove un ragazzotto ben piazzato, con i tatuaggi, le propone un allenamento con i pesi. E’ lecito che Pina abbia dei dubbi e sia restia. Ma, vediamo il perché invece, la signora in questione dovrebbe prediligere un allenamento di questo tipo.

-L’OVER 50-

Ho deciso di prendere in considerazione questa fascia d’età perché è proprio quella che paradossalmente può trarre maggior benefici dall’allenamento con i pesi, in termini di salute dell’apparato muscolo-scheletrico e non solo. Con l’avanzare dell’età iniziano una serie di modificazioni di carattere fisiologico, tra queste, quella che tratteremo in questo articolo è la famosa Sarcopenia (Rosenberg – 1988) una sindrome caratterizzata dalla progressiva perdita di muscolo.

Già dopo i 40 anni inizia a manifestarsi una perdita di muscolo scheletrico con conseguente e progressiva perdita della funzionalità muscolare. E’ proprio questa inefficienza contrattile, accompagnata da una severa ipotonia, ad essere molto spesso direttamente coinvolta nelle mialgie.

La perdita della Forza, figlia di questa sindrome, è dovuta ad una vera e propria diminuzione delle dimensioni e del numero delle cellule muscolari. Essendo quest’ultime le protagoniste della contrazione muscolare,  è ovvio che si verifichi una sostanziale riduzione della capacità contrattile del muscolo scheletrico.

Ci sono però altri fattori implicati nell’insorgenza della Sarcopenia:

Fattori ormonali: la diminuzione dei livelli di Testosterone endogeno è correlata ad una perdita di massa magra.

·         Alterazioni della trasmissione neurale: con l’avanzare dell’età vi è una perdita di velocità da parte dei neuroni di inviare neurotrasmettitori (Acetilcolina) al muscolo.

·         Scarsa attività fisica: l’attività fisica ha un ruolo fondamentale nel preservare i livelli di massa magra.

·         Inadeguato apporto proteico: il ruolo strutturale delle proteine rendono queste importanti.

Le conseguenze che ne derivano di carattere prettamente meccanico sono una diminuzione della capacità di muoversi, problematiche posturali, dolori muscolari cronici ed un attitudine a stancarsi precocemente, anche nelle attività semplici e quotidiane. Tutto ciò si tramuta in un peggioramento della qualità della vita, che facilmente può portare ad un circolo vizioso, in cui il soggetto si muove sempre di meno per via dello sforzo che deve compiere nel muoversi.

La sedentarietà che ne deriva, a questo punto, graverà non solo sull’apparato muscolo scheletrico, ma avrà altre gravi ripercussioni. Da un punto di vista metabolico l’aumento di peso oltre a peggiorare la capacità motoria, aumenterà il rischio delle malattie cardiovascolari e metaboliche. A livello psicologico una ridotta capacità motoria, oltre a minare la stima di se stessi diminuirà la vita sociale con tutte le complicazioni del caso.

SARCOPENIA,SINTOMI:

·         Diminuzione della forza, velocità, forza isometrica

·         Perdita di resistenza

·         Costante senso di debolezza

·         Diminuzione dei movimenti fini

·         Scarso equilibrio

·         Tendenza a cadute

COMPLICANZE:

·        Obesità

·         Aumento del rischio di fratture

·         Disabilità

·         Dolori cronici

·         Problematiche posturali

·         Umore basso

IL RUOLO DELL’ALLENAMENTO DELLA FORZA:

Sono numerosi gli studi in letteratura che dimostrano l’importanza dell’allenamento di potenza come terapia per la Sarcopenia. Si è visto che l’allenamento con i sovraccarichi combatte significativamente la perdita muscolare e migliora la capacità contrattile delle fibre, aumentando la capacità dell’individuo di esprimere forza.

Ovviamente è di vitale importanza affidarsi ad un Trainer professionista, esperto in materia. I danni di un allenamento non adeguato potrebbero cagionare più danni della sindrome stessa.

Un soggetto over 50, inattivo, con problematiche di questo tipo, necessita di un lavoro a 360 gradi.

Gli obiettivi focali su cui lavorare sono molteplici:

·         Migliorare la propriocettività e la consapevolezza del proprio corpo

·         Migliorare la mobilità articolare

·         Migliorare la flessibilità muscolare

·         Apprendere schemi motori complessi

·         Prediligere esercizi multiarticolari

·         Progressione graduale dei carichi

·         Aumentare la forza e la quantità di muscolo scheletrico

Questo percorso necessità di costanza e soprattutto pazienza. Occorre tempo per sviluppare tutte le abilità necessarie, dunque richiede gradualità.

Gli esercizi che sono sicuramente più adatti allo sviluppo della forza generale sono quelli che coinvolgono più gruppi muscolari possibili nello stesso gesto e che di conseguenza permettono di sollevare più peso. Stacco da terra, Panca Piana, Squat, Military Press e Rematore possono essere un buon esempio di una routine completa per sviluppare in maniera equilibrata tutta la muscolatura del corpo.

Ovviamente la tecnica esecutoria è di fondamentale importanza. Il Trainer deve esserne esperto ed  in grado di insegnarla ottimamente. Una tecnica inadeguata oltre che non produrre i benefici sperati può essere un grosso fattore di rischio per gli infortuni. Anche in questo caso occorre tempo, una buona tecnica si costruisce con il tempo.

Note sull’autore :

Alex Berni

Personal Trainer diplomato alla Federazione Italiana Fitness

Laureando in “Informazione scientifica del Farmaco e Scienze e Tecnologie del Fitness e dei prodotti della Salute” presso la Facoltà di Farmacia dell’Università di Camerino.

Lavora come Trainer da oltre 10 anni e svolge l’attività di divulgazione scientifica nell’Ambito del Fitness.

BIBLIOGRAFIA:

·         Roth SM, Ferrell RF, Hurley BF, Strength training for the prevention and treatment of sarcopenia. J Nutr Health Aging. 2000;4(3):143-155

·         Porter MM. The effect of Strength training on sarcopenia. Can J Appl Physiol. 2001;26(1):123-141. doi:10.1139/h01-009

·         P Aagard, C. Suetta, P. Caserotti, S.P. Magnusson, M. Kjaer, Role of the nevous system in sarcopenia and muscle atrophy with aging: strength training as a countermeasure. Scandinavian journal of medicine & science in sports 20(1),49-64,2010.

L’IMPORTANZA DEL SONNO

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UN PREZIOSO ALLEATO DEL NOSTRO BENESSERE: IL SONNO!

In un contesto di isolamento, restrizioni imposte e stress generale come quello nel quale attualmente viviamo, diversi aspetti della nostra vita hanno subito evidenti modifiche e molti di noi avranno sperimentato personalmente anche alterazioni del ritmo sonno- veglia e un peggioramento di qualità e quantità del riposo notturno.

Ma ovviamente i disturbi del sonno non sono un fenomeno legato esclusivamente a questo periodo di quarantena!

L’individuo è inserito in un contesto sociale e anche se il sonno è un requisito biologico per la sopravvivenza insieme a cibo, acqua e aria, viene profondamente influenzato, oltre che da fattori genetici, condizioni di salute, atteggiamento nei confronti del riposo e stile di vita, anche dal contesto socio- culturale e lavorativo, dalla tecnologia e dagli effetti della globalizzazione.

E’ stato sviluppato un “modello socio-ecologico del sonno”,  per descrivere il  meccanismo complesso per cui l’atteggiamento del singolo in relazione alla propria salute è il risultato di scelte individuali inserite nel contesto delle strutture sociali di cui fa parte e che ne influenzano profondamente il comportamento, con conseguenze sulla qualità di vita.

Quali sono le caratteristiche del sonno e che ruolo riveste nella nostra vita?

Che correlazione esiste tra riposo scarso o irregolare e salute generale, rapporto con il cibo e performance sportiva? 

CHE COSA E’ IL SONNO

E’ possibile definire il sonno come uno stato comportamentale complesso reversibile in cui un individuo è disimpegnato dal punto di vista percettivo e non risponde al proprio ambiente

E’ un fenomeno caratterizzato da una profonda modificazione dell’attività elettrica cerebrale e da una perdita reversibile della coscienza e della capacità critica e discriminativa proprie della veglia. Differisce dalla veglia vigile per la mancanza di reattività critica rispetto agli eventi dell’ambiente che ci circonda, ma l’individuo che sta dormendo può essere risvegliato più o meno rapidamente da stimoli sensitivi o sensoriali appropriati e questo distingue il sonno da altri stati di alterata coscienza, come anestesia o coma. 

Durante il sonno si verificano cambiamenti fisiologici quali diminuzione di frequenza cardiaca, pressione sanguigna , respirazione, saturazione di ossigeno nel sangue e temperatura corporea, che riducono il dispendio energetico e aiutano ad avviare e sostenere il riposo.

Si tratta di un processo biologico che segue un ritmo circadiano endogeno regolato dal nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo,ma anche  fattori esogeni influenzano il ritmo sonno-veglia e contribuiscono a mantenerne la circadianità, primo fra tutti l’alternanza luce-buio. Risulta da ciò la tendenza comune a dormire nelle ore notturne e restare svegli e attivi durante la giornata. 

La comparsa del sonno è influenzata anche da meccanismi di regolazione omeostatica per cui maggiore è la durata della veglia precedente, più importante sarà la propensione al riposo:i meccanismi omeostatici e circadiani si integrano e, in condizioni fisiologiche, contribuiscono insieme a determinare il normale ritmo sonno-veglia. 

La durata media del sonno fisiologico di un adulto sano è di circa 7-8 ore, ma esiste un’importante variabilità interindividuale per cui alcuni soggetti hanno bisogno di meno ore di sonno per ottenere un buon riposo fisiologico (5 ore o meno), mentre altri necessitano di un sonno di lunga durata  per sentirsi riposati ed efficienti di giorno. In generale la durata del riposo notturno diventa sempre più breve con l’avanzare dell’età.

L’architettura del sonno ha due stati fondamentali: sonno non-Rem ( non -rapid eye movement sleep) e sonno REM ( rapid eye movement sleep).

Il sonno non-REM è solitamente associato ad attività mentale minima o frammentata e caratterizzato da 4 fasi associate a diversi livelli di profondità , con soglie di eccitazione generalmente più basse nella fase 1 e più alte nella fase 4 (gli stadi 3 e 4 sono denominati “sonno profondo”). 

Il sonno REM è associato ad attività cognitiva, ma i motoneuroni spinali sono inibiti e il movimento risulta limitato (atonia muscolare).

La comparsa di sonno REM e non-REM nell’arco della notte non è casuale: ci si addormenta sempre in sonno non-REM, che viene interrotto ogni 90 minuti circa da un episodio di sonno REM di durata variabile, delineando così l’organizzazione macrostrutturale in cicli. 

 Nel corso della notte, in genere si verificano da quattro a sei cicli di sonno da NREM a REM, e ciascun ciclo  dura da 80 a 110 minuti. 

Il sonno profondo compare per lo più nella prima parte della notte, mentre la maggior parte del sonno REM prevale nella seconda.

Esiste anche un’organizzazione microstrutturale del sonno con  periodi caratterizzati da fluttuazioni cicliche del livello di vigilanza, denominati Cyclic Alternating Pattern (CAP), che si alternano a periodi di sonno più stabile o non-CAP. La percentuale di CAP rispetto alla durata del sonno (CAP rate) ne indica la stabilità e quindi l’efficienza: più il valore del CAP rate aumenta rispetto ai valori fisiologici peggiore è la qualità del sonno e più facilmente il soggetto presenterà astenia o sonnolenza diurne. 

DISTURBI DEL SONNO E INSONNIA: PERCHE’ NON DORMIAMO ABBASTANZA

Per insonnia si intende la compromissione del sonno notturno, che può provocare nelle successive ore diurne sonnolenza ,ansia, irritabilità, difficoltà di concentrazione. Può essere un disturbo passeggero legato a preoccupazioni lavorative o impegni importanti, ma spesso è una vera e propria patologia.

Molte persone riferiscono di non dormire bene ( soprattutto donne e anziani), ma fortunatamente le forme gravi di insonnia non sono molto frequenti.

L’insonnia può essere conseguenza di patologie ( insonnia secondaria) o essere frutto del perdurare di condizioni che alterano il sonno combinate a stati di tensione emotiva protratti ( insonnia primaria).

Alcune persone hanno difficoltà ad addormentarsi, altre si svegliano più volte durante la notte e faticano a riprendere sonno, altre ancora si svegliano molto prima rispetto all’orario stabilito.

Se l’insonnia è un evento transitorio e non provoca particolari disturbi, non necessita di interventi, ma se perdura può essere trattata con rimendi naturali o farmaci.

Alcuni tra i fattori maggiormente responsabili dell’alterazione della qualità del sonno legati a stile di vita, attività lavorativa o abitudini consolidate sono:

  • -CONSUMO DI CAFFEINA

La caffeina antagonizza l’azione dell’adenosina sui propri recettori con diversi effetti tra cui aumento dello stato di allerta e riduzione della propensione ad addormentarsi: esiste una forte associazione tra assunzione giornaliera di caffeina e problemi relativi alla qualità del sonno e dovrebbe essere evitata in persone particolarmente sensibili ai suoi effetti o che già stentano a prendere sonno.

  • -FUMO

Anche Il fumo è associato a scarsa durata e qualità del sonno, che risulterà più frammentario , con rischio di episodi di bruxismo, apnea o ipopnea.

  • -ESPOSIZIONE AD APPARECCHIATURE ELETTRONICHE

Diversi studi condotti su bambini e adulti hanno preso in esame la relazione tra riposo notturno e utilizzo nelle ore serali di computer, televisione  e videogiochi, evidenziando una riduzione nella durata del sonno e sonnolenza diurna.

La luce emessa dagli schermi, potrebbe contrastare l’effetto naturale dell’oscurità su inizio e mantenimento del sonno e antagonizzare  la  naturale riduzione della temperatura corporea e della frequenza cardiaca tipiche del riposo, così come la propensione ad addormentarsi, dato che il contenuto multimediale può stimolare una risposta allo stress attraverso evocazione di eccitazione, paura ed emozioni.

  • -LAVORO SU TURNI

Il lavoro su turni che prevede anche orari notturni, altera il ritmo circadiano del sonno: spesso chi lavora con queste modalità ha più difficoltà ad addormentarsi, accusa sonnolenza durante le ore lavorative, riposa meno e più facilmente ricorre all’uso di farmaci per indurre il sonno.

Studi di Lowden e coll. hanno evidenziato, analizzando la letteratura in merito, assunzione di cibo di qualità più scarsa, quantità e distribuzione differente tra i lavoratori su turni diurni e notturni, rispetto a chi lavora con orario diurno standard 9-17.Tale modalità irregolare nell’assunzione di cibo è influenzata da fattori quali mancanza di una componente sociale associata al pasto, maggior disponibilità di snack o cibi pronti e consumo di cibo extra nell’ambiente di lavoro ed è associata a maggior incidenza di problemi di salute legati all’alimentazione come patologie gastrointestinali, dislipidemie, sviluppo di obesità e alterato metabolismo del glucosio.

  • – JET LEG

Anche il Jet Leg, specie in chi viaggia spesso, può influenzare negativamente il ciclo sonno-veglia e, oltre a causare sintomi come affaticamento, confusione, alterazione dell’umore e  perdita di appetito, spesso impedisce di riposare adeguatamente.

REGOLE PRATICHE PER UNA BUONA IGINENE DEL SONNO

  • -Regolarizzare il più possibile gli orari in cui si va a letto e ci si sveglia
  • -Concedersi un pisolino durante il giorno se si è particolarmente stanchi
  • -Non assumere alcolici specie nelle 2-3 ore precedenti il sonno 
  • -Non assumere sostanze eccitanti come la caffeina nelle 6 ore prima di dormire
  • -Evitare di fumare nella mezz’ora prima di andare a letto
  • -Evitare pasti serali troppo abbondanti e ricchi di grassi
  • -Praticare attività fisica regolarmente, ma se possibile non nelle ore serali 
  • -Rendere confortevole la stanza da letto
  • -Nelle ore prima di coricarsi evitare di impegnarsi in attività particolarmente coinvolgenti mentalmente e/o emotivamente ( studio, lavoro al pc, videogiochi)

PERCHE’ IL SONNO E’ IMPORTANTE E COSA PUO’ COMPORTARE DORMIRE POCO O MALE 

Il sonno non è una condizione passiva interposta tra le attività quotidiane: durante il riposo il cervello ha un’attività piuttosto intensa e svolge funzioni importanti per il mantenimento del nostro equilibrio psicofisico.

Dormire adeguatamente influisce sulla salute in generale , sul benessere emotivo, la funzione cognitiva e  le prestazioni diurne in diversi campi, dal lavoro allo sport.

Nell’uomo la riduzione delle ore di sonno altera l’attività del sistema nervoso simpatico, la tolleranza al glucosio e i livelli ormonali ed è associata a maggior rischio di patologie cardiovascolari, ipertensione, ipercolesterolemia e infarto del miocardio, aumento dell’infiammazione e del rischio di mortalità.

Dormire poco o male compromette l’immunità adattativa e ci rende più vulnerabili alle malattie infettive, poichè il sonno ha un effetto riparatore sul sistema immunitario e sul sistema endocrino, oltre a  facilitare il recupero dal “costo” nervoso e metabolico dello stato di veglia.

In mancanza di un riposo adeguato, il cervello e il corpo non funzionano normalmente, con conseguenze ben peggiori dei sintomi di disagio “iniziali” quali eccessiva sonnolenza, irritabilità e affaticamento.

  • -SONNO E FUNZIONI COGNITIVE

La privazione di sonno o peggio l’insonnia cronica, può disturbare il processo di trasmissione di informazioni nel SNC, penalizzando la capacità di memorizzazione ed elaborazione delle informazioni apprese, riduce l’attenzione nello svolgere i compiti quotidiani e le capacità cognitive in generale, con ripercussioni anche su abilità coordinative, esponendoci a maggior rischio di incidenti o infortuni.

Dormire poco influenza negativamente anche gli stati emozionali, predisponendo a sbalzi d’umore, comportamenti compulsivi o atteggiamenti depressivi, oltre a compromettere processi decisionali e creatività.

Interruzione o mancanza di sonno sono una caratteristica diagnostica comune di molti disturbi mentali e rappresentano fattori di rischio per il suicidio.

Se non si riposa di notte è possibile che durante il giorno si verifiche il cosiddetto “ microsonno”- ci si addormenta per alcuni minuti senza accorgersene –  un fenomeno pericoloso soprattutto quando si è alla guida.

  • -SONNO E SISTEMA IMMUNITARIO

Sonno e sistema  immunitario sono legati da una stretta relazione reciproca per cui modificazioni del sonno influenzano la risposta immunitaria e viceversa: dormire poco può ritardare la normale risposta anticorporale così come l’attivazione immunitaria, quale si verifica ad esempio nel corso di un episodio infettivo, induce rilevanti alterazioni del sonno

Agenti infettivi di natura differente (batteri, virus, protozoi, miceti), possono causare aumento del tempo trascorso in sonno NREM, riduzione dello spazio di sonno REM e sonno discontinuo.

Al crescere della risposta infettiva e del livello di attivazione del sistema immunitario, si innesca rapidamente una risposta dell’asse ipotalamo, ipofisi, surrene, ormoni quali CRH, ACTH, cortisolo e a citochine proinfiammatorie, che disturbano la normale fisiologia del sonno.

  • -SONNO E APPARATO RESPIRATORIO

Anche la relazione tra sonno e sistema respiratorio è bilaterale: esiste un disturbo della respirazione notturna chiamato “apnea notturna ostruttiva”, che causa interruzione del sonno e ne inficia la qualità, rendendo il soggetto più vulnerabili alle infezioni respiratorie. 

Di contro la carenza di sonno può aggravare patologie respiratorie preesistenti.

  • -SONNO E SISTEMA CARDIOVASCOLARE

Le persone che non dormono abbastanza hanno maggiori probabilità di sviluppare problemi cardiovascolari: da alcune metanalisi risulta che la scarsità di sonno è associata ad un aumento del rischio di ipertensione, ipercolesterolemia e aterosclerosi, anche se non si evidenziano associazioni dirette con aumento della mortalità in relazione a tali patologie.

  • -SONNO, AUMENTO DI PESO E OBESITA’

Numerosi studi hanno dimostrato una correlazione inversa tra durata e qualità del sonno e rischio di sviluppare sovrappeso,  obesità, insulino – resistenza e diabete di tipo 2, indipendentemente da sesso età ed etnia del soggetto.

Durante un percorso di dimagrimento, in pazienti con ridotta qualità del sonno o che non riposano a sufficienza, si riscontra minor perdita di peso e difficoltà nel mantenerlo; nel periodo di restrizione calorica, rispetto a chi dorme un numero adeguato di ore, perdono più facilmente massa magra e in questi soggetti si riscontrano più spesso iperglicemia a digiuno, ridotta tolleranza al glucosio o insulino resistenza.

Dormire male sarebbe connesso con una regolazione del metabolismo glucidico non ottimale, mentre il sonno di breve durata risulta correlato soprattutto ad aumento del senso di fame, ricerca di cibi calorici e aumento dell’introito energetico totale.

Tra i meccanismi suggeriti per giustificare tale fenomeno, vi è una alterazione dei meccanismi che determinano fame e sazietà: la privazione del sonno fa registrare ipersecrezione  ipotalamica di orexina, sostanza implicate nello stato di veglia, ma anche nella regolazione dell’introito di cibo; meno dormiamo, più diminuirebbero i livelli di leptina e aumenterebbero quelli di grelina, cui consegue incremento nel consumo di cibo e in particolare di alimenti densi energeticamente.

Ad un aumento dell’introito calorico, non corrisponde un  aumento altrettanto  apprezzabile  del dispendio energetico totale durante le ore di veglia: la stanchezza accumulata ci rende meno inclini al movimento e un maggior numero di ore senza dormire significa avere molto più tempo a disposizione per mangiare!

In cronico questa condizione porta a bilancio energetico positivo e incremento ponderale.

Anche se sono necessari ulteriori studi per delineare ( definire ) precisamente le correlazioni tra sonno, orologio circadiano  e vie metaboliche, sottolineare il ruolo fondamentale di un buon riposo notturno  rientra tra le strategie volte a promuovere la salute in generale e a prevenire sovrappeso e obesità. 

  • -SONNO E INFIAMMAZIONE

I meccanismi che potrebbero spiegare l’associazione tra disturbi del sonno e infiammazione, sono relativamente inesplorati, ma è plausibile che l’attivazione della risposta beta adrenergica sia responsabile dell’aumento nella produzione di citochine proinfiammatorie e marker di infiammazione sistemica.

  • -SONNO E MORTALITA’

Anche se sono necessari ulteriori studi per dimostrare definitivamente un’associazione causale diretta  tra scarsa qualità del riposo notturno e mortalità, tra soggetti affetti da disturbi respiratori del sonno è stata osservata maggior incidenza di aritmie notturne, ischemia cardiaca, infarto del miocardio, ictus ischemico e morte improvvisa per arresto cardiaco.

SONNO E ATTIVITA’ SPORTIVA: EFFETTI DELLA PRIVAZIONE DEL SONNO NELL’ATLETA

Se nella popolazione generale il sonno è vitale per mantenere un buon equilibrio psicofisico, per l’atleta in particolare , rappresenta un elemento essenziale per un performance ottimale: Il sonno promuove il ripristino dei sistemi immunitario ed endocrino, il recupero da impegno cognitivo e  costo metabolico del precedente giorno di allenamento, stimola la memoria e il potenziale di apprendimento per la successiva sessione allenante. Durante il riposo notturno l’apparatolocomotore beneficia del rilascio dell’ormone della crescita, che velocizza processi di riparazione strutturale e anabolismo.

Diversi studi hanno evidenziato come una scarsa qualità del sonno sia comune tra gli sportivi, soprattutto atleti di elitè, tra i quali le ore dedicate al riposo per notte sono di solito molto meno rispetto alle 7-9 raccomandate e anche la qualità del sonno non è ottimale.

Capacità di eseguire esercizi ad alta intensità, sub- massimali e prolungati , umore, apprendimento, memoria, percezione del dolore, infiammazione ed  efficienza del sistema immunitario ne subiscono le conseguenze, e vengono penalizzati tempi di reazione, stabilità dello stato emotivo , forza e potenza.

Spesso sono  programmi di allenamento troppo rigorosi ad alterare i ritmi del sonno, anche se non si è ancora compreso esattamente se l’insonnia sia sintomo di overtraining o se l’allenamento abbia effetti negativi su sonno e capacità di recupero.

A volte gli atleti danno scarsa importanza al sonno, che passa in secondo piano rispetto all’impegno nelle sedute allenanti e l’utilizzo sempre crescente di smartphone e altri dispositivi elettronici può  ulteriormente peggiorare la qualità del riposo:  sia sportivi professionisti che dilettanti comunicano frequentemente tramite i social, pubblicano messaggi, commentano le proprie gare o eventi e questa  attività si svolge prevalentemente di notte dopo gli allenamenti, precludendo una buona igiene del sonno. Le emissioni di luce blu provenienti dagli schermi interrompono la fisiologica produzione di melatonina, che aiuta a regolare i ritmi circadiani e può influire sulla vigilanza del mattino successivo. Infine, sebbene gli atleti cerchino di dormire bene la sera prima di una competizione,  stress e ansia che precedono l’evento  possono compromettere il sonno, come frequenti spostamenti soprattutto con cambi di fuso orario.

Oltre ad adottare strategie per favorire il processo di addormentamento come osservare comportamenti di routine associati al momento del riposo, che gioverà di un ambiente fresco e buio, l’atleta dovrà cercare di gestire al meglio l’ansia pre competizione, magari utilizzando specifici protocolli di rilassamento.

Anche fare un pisolino durante il giorno è stato suggerito come strumento utile per favorire i processi di recupero, in particolare quando la notte non si riposa bene: un pisolino, anche di soli 30 minuti dopo un sonno notturno di 4 ore scarse, può aumentare la soglia di vigilanza diurna e migliorare prestazioni fisiche e mentali. 

Soprattutto per gli atleti d’élite, l’importanza del sonno dovrebbe essere enfatizzata e il riposo notturno incluso come priorità assoluta, insieme a routine di allenamento e alimentazione.

ALIMENTAZIONE E SONNO NELLO SPORTIVO : IL CONCETTO DI “CRONONUTRIZIONE”

Nell’atleta l’intervento nutrizionale deve essere periodizzato in relazione all’allenamento quotidiano e agli obiettivi della stagione agonistica: riguardo le sessioni allenanti il focus sarà promuovere l’adattamento, mentre in periodi di competizione sarà ottenere una prestazione ottimale.

Strategie nutrizionali adeguate possono massimizzare adattamento e recupero oppure comprometterli e sembra esistere un nesso anche tra consumo di determinati alimenti, composizione e tempistiche dei pasti e durata/qualità del sonno.

Inserire carboidrati nel pasto serale ad esempio, può ridurre il tempo necessario per addormentarsi, mentre il consumo di fonti proteiche lattiero casearie può aumentare la durata del sonno; l’alcol riduce il sonno REM, mentre la caffeina ha effetti negativi su tempi di insorgenza, qualità e durata del sonno, aumentando lo stato di allerta grazie all’azione antagonista sui recettori dell’adenosina. Pasti particolarmente abbondanti o consumati tardi la sera possono avere influenza negativa sul riposo notturno, probabilmente per l’effetto termogenico della digestione.

Recentemente, per descrivere la correlazione tra cibo e ritmi circadiani è stato coniato il termine “crononutrizione”: il nostro orologio interno può essere influenzato dal timing dei pasti e dalla tipologia del cibo che consumiamo.

Ma in che modo?

Diversi  neurotrasmettitori sono coinvolti nel ciclo sonno-veglia, tra cui 5-idrossitriptofano, GABA, oressina e catecolamine e interventi nutrizionali o alimenti che hanno effetti su tali sostanze, possono avere impatto sul sonno.

  • -EFFETTO DEL CONSUMO DI CARBOIDRATI

E’ stato dimostrato che il consumo di carboidrati aumenta la concentrazione di 5-HT, agendo sul rapporto plasmatico Triptofano: Aminoacidi neutri di grandi dimensioni  o  LNAA . Dopo un pasto ricco di carboidrati, l’insulina secreta ha effetto sul trasporto del Triptofano attraverso la barriera emato encefalica e essendo un agente anabolizzante è in grado di facilitare l’assorbimento di LNAA da parte del muscolo, aumentando la disponibilità di Triptofano a livello centrale per la sintesi di serotonina e melatonina.

Carboidrati ad alto indice glicemico consumati circa 4 ore prima di coricarsi,  possono favorire l’insorgenza del sonno e prolungarne la durata, ma sono necessari ulteriori studi per determinare con esattezza le tempistiche ottimali dei pasti serali contenenti carboidrati e in quale quantità debbano essere presenti questi macronutrienti per influenzare positivamente sonno e recupero negli atleti.

  • -MELATONINA

La melatonina è un ormone secreto dalla ghiandola pineale, strutturalmente legata alla serotonina. Da un punto di vista fisiologico la sua secrezione aumenta poco dopo l’esordio del buio, raggiunge il massimo tra le ore 2 e 4 del mattino e diminuisce nella seconda metà della notte. La melatonina è associata al controllo del ritmo circadiano e alla sincronizzazione del ciclo luce-buio ed ha effetti sedativi per influenza sulla temperatura corporea interna: un aumento della melatonina esogena ha però effetti positivi anche in relazione ai livelli endogeni di questa sostanza. La melatonina ha bassa tossicità a dosi relativamente elevate e grazie alle sue piccole dimensioni e all’elevata solubilità nei lipidi, attraversa facilmente le membrane fisiologiche.

Non si registrano particolari benefici per assunzioni di quantitativi superiori ai 3 mg.

  • -PROTEINE RICCHE DI TRIPTOFANO

Il triptofano è un aminoacido essenziale, precursore di serotonina e melatonina e può attraversare la barriera emato-encefalica competendo per il trasporto con altri aminoacidi neutri : viene convertito in serotonina solo quando nel cervello è presente in quantità sufficiente e superiore a quella degli aminoacidi ramificati.

Fonti alimentari proteiche ricche di triptofano sono tacchino, pollo, pesce, uova, semi di zucca, fagioli, arachidi, formaggio e verdure a foglia verde e già quantitativi relativamente piccoli  di questa sostanza nella dieta, possono influire positivamente sul sonno.

Livelli particolarmente elevati di triptofano sono contenuti nell’alfa lattoalbumina: gli esiti di alcuni studi sulla somministrazione di sieroproteine del latte arricchite con lattolbumina, hanno evidenziato un aumento consistente del rapporto triptofano/ LNAA . 

Anche nel caso delle proteine contenenti triptofano, sono necessarie ulteriori indagini per valutarne più precisamente gli effetti su sonno e recupero nell’atleta.

  • -ANTIOSSIDANTI

La capacità antiossidante di numerosi micronutrienti è un’area di interesse emergente per supportare il sistema endogeno di difesa antiossidante degli atleti e attenuare gli effetti negativi del danno ossidativo dovuto ai radicali liberi. Il consumo di antiossidanti può influenzare il recupero dall’esercizio fisico, ma  anche il sonno, sul quale hanno impatto negativo le citochine pro-infiammatorie.

Esempi di antiossidanti presenti nella dieta sono vitamina C, vitamina E , beta carotene o acido lipoico: va sottolineato che, essendo molto eterogenei, hanno meccanismi d’azione differenti e non regolano esclusivamente la produzione di radicali liberi nell’organismo. Pertanto occorre valutarne l’effettiva necessità di impiego: nell’atleta in particolare, in molti casi rappresentano un aiuto nell’accelerare il recupero post esercizio fisico intenso, ma possono compromettere il fenomeno dell’adattamento, così importante per il miglioramento della performance.

  • -SUCCO DI AMARENA

Le ciliegie acide ( o amarene), contengono alte concentrazioni di melatonina e una gamma di composti fenolici con proprietà antiossidanti e antinfiammatorie: questo potrebbe giustificare l’effetto positivo su durata e qualità del sonno emerso dai risultati di vari studi.

Durante il recupero gli atleti possono soffrire di indolenzimento muscolare a insorgenza ritardata (DOMS), che può ridurre quantità e qualità del riposo notturno: l’integrazione con succo di amarena (30 ml, due volte al giorno per sette giorni) è in grado di ridurre il declino della funzionalità muscolare, in particolare dopo esercizio eccentrico eseguito ad alta intensità e potrebbe rivelarsi utile in periodi di allenamento che prevedono doppie sessioni o tempi di recupero piuttosto brevi.

  • -KIWI

Il kiwi  è un frutto che contiene una vasta gamma di nutrienti che possono favorire il sonno, la salute e il recupero, tra cui serotonina, vitamina C, vitamina E, vitamina K, acido folico, antocianidine, carotenoidi, beta-carotene, luteina, potassio, rame e fibre ed è  stato suggerito che i vari componenti bioattivi nei kiwi possono agire in modo sinergico nell’influenzare diversi processi fisiologici e metabolici (inibizione delle risposte ossidative e infiammatorie, miglioramento della salute del tratto gastrointestinale e della funzione intestinale).

Il contenuto di serotonina nei kiwi può contribuire a migliorare il sonno, mentre il ricco contenuto di antiossidanti può sopprimere l’espressione dei radicali liberi e le citochine infiammatorie.

Insonnia e sindrome delle gambe senza riposo hanno una correlazione con la carenza di folati, il cui contenuto negli alimenti è spesso alterato dalla cottura, mentre il kiwi, che ne contiene in abbondanza, viene consumato crudo.

Ulteriori ricerche definiranno meglio le potenzialità del kiwi nel migliorare recupero e qualità del sonno negli atleti.

  • -VITAMINE DEL GRUPPO B E MAGNESIO

La vitamina B 12 contribuisce alla secrezione di melatonina, la piridossina (vitamina B 6 ) è coinvolta nella sintesi della serotonina dal triptofano e la niacina (vitamina B 3 ) può provocare un effetto di “ risparmio” sulla concentrazione di triptofano, aumentandone la disponibilità per la sintesi di serotonina e melatonina. 

Il magnesio potrebbe aumentare la secrezione di melatonina (è importante per la produzione dell’enzima N-acetiltransferasi che partecipa alla conversione del 5-HT in melatonina), promuovendo l’insorgenza del sonno e fungendo da agonista del GABA, principale neurotrasmettitore inibitorio che agisce sul sistema nervoso centrale. 

  • -VALERIANA

La valeriana è un’erba che si lega ai recettori GABA di tipo A e si pensa che induca un effetto calmante regolando l’eccitabilità del sistema nervoso. I risultati di una meta-analisi che ha valutato l’efficacia della valeriana hanno mostrato un miglioramento soggettivo della qualità del sonno, sebbene non siano stati dimostrati miglioramenti nelle misure quantitative del sonno.

E’ una delle sostanze più comuni che si trovano negli integratori per sostenere e favorire il sonno e gli effetti collaterali più comuni sono sonnolenza, vertigini e reazioni allergiche.

RIASSUMENDO

In primo luogo, gli atleti dovrebbero concentrarsi sull’utilizzo di una buona igiene del sonno per massimizzare la qualità e la quantità del riposo e anche se la ricerca nel campo della crononutrizione ha ancora molta strada da fare, è possibile suggerire diverse raccomandazioni pratiche:

  • Inserire nel pasto serale -consumato più di un’ora prima di coricarsi- alimenti ad alto indice glicemico come riso bianco, pasta, pane e patate, può favorire il sonno, 
  • Le diete ricche di carboidrati possono causare latenze del sonno più brevi (possono aumentare il rapporto tra triptofano libero e grandi aminoacidi neutri e promuovere l’assorbimento di aminoacidi ramificato nel muscolo, così che il triptofano abbia accesso facilitato al cervello)
  • Le diete ricche di proteine con buone quantità di triptofano, ​​possono migliorare la qualità del sonno.
  • Le diete ricche di grassi possono influenzare negativamente il tempo di sonno totale.
  • Quando diminuisce l’apporto calorico totale, la qualità del sonno può essere disturbata.
  • Piccole dosi di triptofano (1 g) possono migliorare sia la latenza del sonno sia la qualità del sonno. 
  • L’ormone melatonina e gli alimenti che la contengono possono ridurre il tempo di insorgenza del sonno.
  • La qualità del sonno soggettiva può essere migliorata con l’assunzione di valeriana, ma come per tutti i supplementi, gli atleti devono essere consapevoli della potenziale presenza di contaminanti e del rischio di effetti collaterali.

Il margine per ulteriori indagini su interventi nutrizionali volti a migliorare qualità e quantità del sonno con risvolti positivi su salute e qualità di vita nella popolazione generale e negli atleti in particolare, (per i quali anche tempi di recupero e adattamento agli allenamenti sono fondamentali), è ancora molto ampio e non è possibile trarre conclusioni definitive.

Certamente possiamo impegnarci a rispettare alcune regole di base per garantire una corretta igiene  del riposo notturno e riconoscere l’importanza di concedere il giusto spazio al sonno, troppo spesso trascurato e sacrificato, nel tentativo di prolungare il più possibile il tempo dedicato ai ritmi incalzanti  della quotidianità, più o meno imposti, a discapito del nostro benessere psicofisico.

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METABOLISMO BLOCCATO :Come sbloccarlo

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METABOLISMO BLOCCATO 

LE MODIFICHE DEL TDEE(“Total Daily Energy Expenditure”)

Il metabolismo può rallentare nel caso in cui l’individuo si presti a :

• Fare diete povere di carboidrati

• Fare diete povere di grassi

• Mangiare cibi industriali

• Fare spesso abbuffate

  • Saltare i pasti 

Ovviamente la mia è una provocazione, il metabolismo non può bloccarsi, ma può invece attuare degli adattamenti con il fine di consumare meno energie. Tali adattamenti sono fondamentalmente due: 

FISIOLOGICO e PSICOLOGICO.

Il primo avviene quando l’individuo, una volta impostata una dieta, inizia a perdere peso. Il corpo, dopo un primo periodo, per impedire un calo repentino attua delle strategie, quindi dei processi che durante l’arco della giornata permettono di consumare meno, un esempio è il calo del NEAT.

 Questo comporta uno stallo del peso e un annullamento del deficit energetico instaurato e, nei casi peggiori, un aumento eccessivo di calorie. 

Gli adattamenti alla dieta avvengono in base a quante calorie vengono sottratte dal tdee e dai livelli di grasso che il corpo ritiene sicuro (modello del set point che vedremo in seguito).

Una grossa fetta di diete fallisce a causa proprio di questi meccanismi, associati a una forza psicologica debole , mentre in altri casi è un’assoluta mancanza di volontà nel cambiare abitudini ormai radicate da anni, E’ l’esempio di individui ex obesi o di soggetti che provengono da famiglie storicamente sovrappeso e/o che ne hanno sofferto da bambini.

Il secondo fattore, come intuibile, è quello PSICOLOGICO. 

Quando un soggetto è a dieta, con il passare del tempo è inevitabile che tenda ad essere meno rigido con se stesso e sia più propenso a concedersi qualche alimento che a inizio percorso avrebbe di certo evitato. Questo aspetto, all’apparenza prettamente psicologico,è in realtà dato dai livelli di grasso del corpo. 

Quando si perde peso, e ci si allontana dai margini ideali, il corpo , non solo spinge l’individuo a muoversi di più, ma aumenta allo stesso tempo la sensazione di fame portano il soggetto a ricercare alimenti più soddisfacenti. 

Un meccanismo naturale che il corpo attua proprio per tutelarsi e che, anche in questo caso, porta al fallimento progressivo di determinate diete.

Come comportarsi?

Il mio consiglio è quello di evitare, come prima cosa, di stare per un periodo troppo lungo, a dieta(come vedremo in seguito NEI PROSSIMI ARTICOLI  ) . 

Evitare regimi alimentari troppo rigidi e restrittivi. Evitare di ossessionarsi in modo lesionistico e contro produttivo in palestra, ma soprattutto tenere il NEAT sempre alto, monitorarsi ogni giorno e capirsi..

MA SOPRATUTTO RIVOLGERSI AD UN PROFESSIONISTA